Al fine di contrastare i paradisi fiscali e gli arbitraggi fiscali internazionali e nazionali, il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico il D.L. 1 luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, con la L. 3/8/2009, n. 102, per dare attuazione alle Direttive della OCSE. L’Italia, comunque in ritardo sulla fiscalità internazionale, è stata uno degli ultimi Paesi aderenti alla OCSE (Rapporto Ocse 1998) ad adottare, una normativa CFC, diretta a contrastare l’accumulo di profitti in Paesi a bassa tassazione e a tassarli nei Paesi dove si trova il reale beneficiario economico, dove ovviamente è prevista una tassazione più alta.
La disciplina antielusiva CFC regola la tassazione dei soggetti residenti, che hanno una partecipazione di controllo o di collegamento di una società estera ubicata in uno dei Paesi black list ma anche white list, per trasparenza sui redditi da essa conseguita.
Quando si parla di Transfer Pricing bisogna fare riferimento a quella particolare tecnica attraverso la quale si trasferiscono utili da un Paese ad alta pressione fiscale verso un Paese Off-shore, a fiscalità bassa, mediante lo scambio di beni e prestazioni di servizi per il tramite di prezzi svincolati dalle logiche dei mercati concorrenziali.
La normativa sulla CFC è stata introdotta dall’art. 1, comma 2, della Legge 21 novembre 2000, n. 342, di cui al comma 4 dell’art. 112-bis corrisponde all’attuale art. 167 del TUIR. La normativa, molto striminzita, risiede nell’art. 110, rubricato come norme generali sulle valutazioni, comma 7, del T.U.I.R, che stabilisce che la valutazione dei componenti di reddito, derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, controllate o controllanti, sono valutate in base al prezzo normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, se deriva un aumento di reddito.
Nel caso che ne derivasse una diminuzione di reddito, bisogna fare riferimento agli accordi conclusi con le Autorità competenti degli Stati membri, a seguito delle speciali procedure amichevoli, previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La disposizione si applica anche per i beni ceduti e servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci di fabbricazione o lavorazioni di prodotti.
Appare necessario specificare che la normativa CFC, ha due macro-famiglie di metodologie:
Allo stato attuale, l’Italia non si è limitata ad utilizzare un metodo in alternativa all’altro ma purtroppo entrambi, favorendo la non certezza del diritto. L’ex art. 76 del TUIR, contenente norme generali sulle valutazioni, in vigore fino al 31 dicembre 2003, (traslato nell’attuale) art. 110, comma 7, sostituito dall’art. 1 dell D.Lgs. 12.12.2003, n. 344, in vigore dal 1 gennaio 2004, fa riferimento esclusivamente al valore normale dei beni ceduti e dei servizi prestati.
L’intenzione del legislatore non è stata solo quella di colpire le localizzazioni delle imprese italiane nei Paesi Off-Shore ma qualsiasi società residente all’estero, a prescindere dalla sua localizzazione, val a dire indipendentemente dal fatto di essere residente in uno dei Paesi a fiscalità privilegiata, indicati nelle black List o meno. In particolare, un’impresa, un ente o una società estera, controllati da un soggetto residente in Italia, ricadono nella disciplina italiana delle CFC, se si verifichino le seguenti condizioni:
Con le circolari, n. 51/E del 6 ottobre 2010, la n. 23/E del 26 maggio 2011 e la n. 28/E del 21 giugno 2011, l’Agenzia delle Entrate ha fornito rilevanti chiarimenti, in merito all’applicazione del principio di trasparenza, sui redditi prodotti da imprese e società controllate, residenti in Paesi a fiscalità privilegiata, e della sua applicazione anche alle società controllate residenti in Paesi UE o Paesi a fiscalità ordinaria che godono di regimi fiscali vantaggiosi, che con le loro attività danno luogo alle cd. passive income, oppure prestano servizi infragruppo.
Si parla di sub-holding, come quelle costituite nei Paesi Bassi, sotto forma di besloten vennootschap o naamloze vennootschap, detentrice di partecipazioni e di altri flussi passive income, ma anche le plusvalenze nell’ipotesi della vendita della società controllata. Con le patent companies che raccolgono i frutti di diritti internazionali immateriali (royalties) che risultano assoggettati a un’aliquota particolarmente bassa del 5%, grazie anche alla mancata applicazione delle outbound interests o royalties. I benefici si raddoppiano se si pensa che trattandosi di un Paese membro UE è applicabile anche la normativa “madre-figlia”, connessa alle Direttive comunitarie n. 90/435/CEE del Consiglio del 23 luglio 1990 e la n. 2203/49/CE del Consiglio del 3 luglio 2003 che consente a una società olandese, consociata con una società controllante residente in un altro Stato membro di incassare e pagare dividendi, interessi e royalties esenti da ritenute fiscali.
Per di più il regime fiscale è molto basso, in quanto è prevista una tassazione del 20% per i redditi prodotti fino a 200.000 euro e del 25,5% per i redditi eccedenti la soglia. Comunque, resta da precisare che, sebbene il livello di tassazione in Olanda non risulti essere inferiore al 50% di quello previsto in Italia, non è escluso che la trasparenza in capo alla controllante italiana comporti l’assoggettamento per trasparenza in Italia. Tra l’Italia e l’Olanda è prevista una convenzione contro le doppie imposizioni in merito all’applicazione di ritenute sui passive income con aliquote differenziate:
Il reddito della CFC deve essere determinato dal soggetto controllante residente in Italia che deve prendere a base gli elementi patrimoniali della società estera controllata, contenuti nel bilancio o altro documento prospettico riepilogativo della contabilità di esercizio della CFC.
Il problema si presenta allorquando la società estera controllata non abbia una regolare tenuta delle scritture contabili, pertanto il soggetto residente sarà tenuto alla redazione di un apposito prospetto secondo la normativa italiana e dovrà certificare i costi di acquisto dei beni relativi all’attività esercitata, nonché dei componenti positivi e negativi al fine di poter determinare il reddito o l’eventuale perdita, entro 30 giorni dalla richiesta dell’Agenzia delle Entrate.
Se le risultanze portano a una perdita della CFC la stessa sarà computata in diminuzione dei redditi della stessa CFC e non in capo ai soggetti partecipanti.
Tra le variazioni in aumento vanno inserite anche quelle diverse da quelle elencate specificamente, quali:
Nelle variazioni in diminuzione, oltre a quelle previste vanno inserite anche quelle diverse:
In materia di transfer pricing la Sezione Tributaria della Suprema Corte di Cassazione è intervenuta (Sentenza n. 11949, del 13 luglio 2012), con la quale, nell’ambito di operazioni infragruppo, in merito ai relativi prezzi pattuiti nelle compravendite tra una società capogruppo estera e una controllata italiana, “lo scostamento tra il corrispettivo concordato e il valore normale dei beni scambiati, se ritenuto illegittimo dal Fisco, è su quest’ultimo che si riverbera l’onere della prova”.
In un passaggio di avvedutezza la Suprema Corte ha osservato: “E’ invero, di tutta evidenza, che ai fini della deducibilità di un costo addebitato da una controllante ad una controllata, è pur sempre necessario che risulti, se non che il costo sia correlato a specifici ricavi conseguiti da quest’ultima, quanto meno che l’addebito di tale costo si sia tradotta in una effettiva utilità per la controllata”.
Sostanzialmente, l’onere della prova di dare la dimostrazione che il costo esiste ed è inerente nel passaggio da una società controllante estera a una controllata italiana non può che essere a carico del Fisco e non del contribuente.