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La Normativa CFC e il Transfer Price

La Normativa CFC e il Transfer Price

La Normativa CFC e il Transfer Price

Al fine di contrastare i paradisi fiscali e gli arbitraggi fiscali internazionali e nazionali, il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico il D.L. 1 luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, con la L. 3/8/2009, n. 102, per dare attuazione alle Direttive della OCSE. L’Italia, comunque in ritardo sulla fiscalità internazionale, è stata uno degli ultimi Paesi aderenti alla OCSE (Rapporto Ocse 1998) ad adottare, una normativa CFC, diretta a contrastare l’accumulo di profitti in Paesi a bassa tassazione e a tassarli nei Paesi dove si trova il reale beneficiario economico, dove ovviamente è prevista una tassazione più alta.

Disciplina antielusiva CFC

La disciplina antielusiva CFC regola la tassazione dei soggetti residenti, che hanno una partecipazione di controllo o di collegamento di una società estera ubicata in uno dei Paesi black list ma anche white list, per trasparenza sui redditi da essa conseguita.

I redditi del soggetto non residente imputati per trasparenza sono assoggettati a tassazione separata e vanno indicati nell’Unico 2012 con l’aliquota media applicata sul reddito complessivo del soggetto residente che non può essere inferiore al 27%.

Quando si parla di Transfer Pricing bisogna fare riferimento a quella particolare tecnica attraverso la quale si trasferiscono utili da un Paese ad alta pressione fiscale verso un Paese Off-shore, a fiscalità bassa, mediante lo scambio di beni e prestazioni di servizi per il tramite di prezzi svincolati dalle logiche dei mercati concorrenziali.

Sostanzialmente, l’Amministrazione Finanziaria può valutare beni e servizi, in deroga al principio di valutazione dei corrispettivi pattuiti, secondo il valore normale.

La normativa sulla CFC è stata introdotta dall’art. 1, comma 2, della Legge 21 novembre 2000, n. 342, di cui al comma 4 dell’art. 112-bis corrisponde all’attuale art. 167 del TUIR. La normativa, molto striminzita, risiede nell’art. 110, rubricato come norme generali sulle valutazioni, comma 7, del T.U.I.R, che stabilisce che la valutazione dei componenti di reddito, derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, controllate o controllanti, sono valutate in base al prezzo normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, se deriva un aumento di reddito.

Autorità Competenti e gli accordi

Nel caso che ne derivasse una diminuzione di reddito, bisogna fare riferimento agli accordi conclusi con le Autorità competenti degli Stati membri, a seguito delle speciali procedure amichevoli, previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La disposizione si applica anche per i beni ceduti e servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci di fabbricazione o lavorazioni di prodotti.

Per valore normale deve intendersi il prezzo del corrispettivo mediamente praticato per i beni e servizi della stessa specie o similari, in condizione di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e  nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquistati o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi.

Due macrofamiglie

Appare necessario specificare che la normativa CFC, ha due macro-famiglie di metodologie:

  • un metodo giurisdizionale, che si basa sulle liste di Paesi o territori di Law Tax Jurisdiction, adottato dall’Italia, dal Giappone, dal Regno Unito, dalla Francia, dal Portogallo, dalla Svezia, dall’Ungheria, dalla Corea del Sud, dalla Finlandia, da Israele, dalla Norvegia;
  • metodo della transazione, adottato da Stati Uniti, Germania, Spagna, Canada, Australia, che sottopongono a tassazione i redditi passivi, derivanti da dividendi, plusvalenze, canoni, mentre non riprendono a tassazione i redditi di impresa derivanti da attività industriale e commerciale.

Allo stato attuale, l’Italia non si è limitata ad utilizzare un metodo in alternativa all’altro ma purtroppo entrambi, favorendo la non certezza del diritto. L’ex art. 76 del TUIR, contenente norme generali sulle valutazioni, in vigore fino al 31 dicembre 2003, (traslato nell’attuale) art. 110, comma 7, sostituito dall’art. 1 dell D.Lgs. 12.12.2003, n. 344, in vigore dal 1 gennaio 2004, fa riferimento esclusivamente al valore normale dei beni ceduti e dei servizi prestati.

Fiscalità e Blacklist

L’intenzione del legislatore non è stata solo quella di colpire le localizzazioni delle imprese italiane nei Paesi Off-Shore ma qualsiasi società residente all’estero, a prescindere dalla sua localizzazione, val a dire indipendentemente dal fatto di essere residente in uno dei Paesi a fiscalità privilegiata, indicati nelle black List o meno. In particolare, un’impresa, un ente o una società estera, controllati da un soggetto residente in Italia, ricadono nella disciplina italiana delle CFC, se si verifichino le seguenti condizioni:

  1. che la tassazione effettiva subita non sia inferiore al 50% di quella che avrebbe subito in Italia;
  2. che i proventi derivino dalle income passive per più del 50% dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti, o altre attività finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica, nonché dalla prestazione di servizi infragruppo e i servizi finanziari.

Paesi a fiscalità privilegiata

Con le circolari, n. 51/E del 6 ottobre 2010, la n. 23/E del 26 maggio 2011 e la n. 28/E del 21 giugno 2011, l’Agenzia delle Entrate ha fornito rilevanti chiarimenti, in merito all’applicazione del principio di trasparenza, sui redditi prodotti da imprese e società controllate, residenti in Paesi a fiscalità privilegiata, e della sua applicazione anche alle società controllate residenti in Paesi UE o Paesi a fiscalità ordinaria che godono di regimi fiscali vantaggiosi, che con le loro attività danno luogo alle cd. passive income, oppure prestano servizi infragruppo.

Da considerare che nella UE ci sono Paesi che, per attrarre i capitali esteri, adottano una politica fiscale potenzialmente bassa operante sotto forma di sub-holding o patent company.

Sub-Hoding

Si parla di sub-holding, come quelle costituite nei Paesi Bassi, sotto forma di besloten vennootschap o naamloze vennootschap, detentrice di partecipazioni e di altri flussi passive income, ma anche le plusvalenze nell’ipotesi della vendita della società controllata. Con le patent companies che raccolgono i frutti di diritti internazionali immateriali (royalties) che risultano assoggettati a un’aliquota particolarmente bassa del 5%, grazie anche alla mancata applicazione delle outbound interests o royalties. I benefici si raddoppiano se si pensa che trattandosi di un Paese membro UE è applicabile anche la normativa “madre-figlia”, connessa alle Direttive comunitarie n. 90/435/CEE del Consiglio del 23 luglio 1990 e la n. 2203/49/CE del Consiglio del 3 luglio 2003 che consente a una società olandese, consociata con una società controllante residente in un altro Stato membro di incassare e pagare dividendi, interessi e royalties esenti da ritenute fiscali.

Redditi eccedenti la soglia

Per di più il regime fiscale è molto basso, in quanto è prevista una tassazione del 20% per i redditi prodotti fino a 200.000 euro e del 25,5% per i redditi eccedenti la soglia. Comunque, resta da precisare che, sebbene il livello di tassazione in Olanda non risulti essere inferiore al 50% di quello previsto in Italia, non è escluso che la trasparenza in capo alla controllante italiana comporti l’assoggettamento per trasparenza in Italia. Tra l’Italia e l’Olanda è prevista una convenzione contro le doppie imposizioni in merito all’applicazione di ritenute sui passive income con aliquote differenziate:

  • una ritenuta del 10% sugli interessi;
  • una ritenuta del 5% sulle royalties;
  • un’aliquota tra il 5 e il 15% sui dividendi.

Reddito CFC

Il reddito della CFC deve essere determinato dal soggetto controllante residente in Italia che deve prendere a base gli elementi patrimoniali della società estera controllata, contenuti nel bilancio o altro documento prospettico riepilogativo della contabilità di esercizio della CFC.

Il problema si presenta allorquando la società estera controllata non abbia una regolare tenuta delle scritture contabili, pertanto il soggetto residente sarà tenuto alla redazione di un apposito prospetto secondo la normativa italiana e dovrà certificare i costi di acquisto dei beni relativi all’attività esercitata, nonché dei componenti positivi e negativi al fine di poter determinare il reddito o l’eventuale perdita, entro 30 giorni dalla richiesta dell’Agenzia delle Entrate.

Dovrà, inoltre, determinare l’utile o la perdita di esercizio della CFC apportandone le variazioni in aumento o in diminuzione.

Se le risultanze portano a una perdita della CFC la stessa sarà computata in diminuzione dei redditi della stessa CFC e non in capo ai soggetti partecipanti.

Alcune varianti

Tra le variazioni in aumento vanno inserite anche quelle diverse da quelle elencate specificamente, quali:

  1. la differenza tra il valore normale dei beni ceduti e/o dei servizi prestati ed il ricavo contabilizzato,
  2. l’ammontare dei costi e spese indeducibili relativi ai mezzi di trasporto, giusta l’applicazione della disposizione contenuta nell’art. 164 del TUIR, relativo ai limiti di deduzione delle spese e degli altri componenti negativi relativi a taluni mezzi di trasporto a motore, utilizzato nell’esercizio di imprese e arti o professioni.

Variazioni in diminuzione

Nelle variazioni in diminuzione, oltre a quelle previste vanno inserite anche quelle diverse:

  1. le spese e i componenti negativi che, pur non essendo imputabili al conto economico, sono deducibili per disposizioni di legge (art. 109, comma 4, del TUIR),
  2. la variazione della riserva sinistri relativa ai contratti di assicurazione (art. 111, comma 3, del TUIR),
  3. la variazione delle riserve tecniche obbligatorie relative al ramo vita che non concorrono a formare il reddito di esercizio (art. 11, comma 1- bis, del TUIR).

Resoconto finale

In materia di transfer pricing la Sezione Tributaria della Suprema Corte di Cassazione è intervenuta (Sentenza n. 11949, del 13 luglio 2012), con la quale, nell’ambito di operazioni infragruppo, in merito ai relativi prezzi pattuiti nelle compravendite tra una società capogruppo estera e una controllata italiana, “lo scostamento tra il corrispettivo concordato e il valore normale dei beni scambiati, se ritenuto illegittimo dal Fisco, è su quest’ultimo che si riverbera l’onere della prova”.

In un passaggio di avvedutezza la Suprema Corte ha osservato: “E’ invero, di tutta evidenza, che ai fini della deducibilità di un costo addebitato da una controllante ad una controllata, è pur sempre necessario che risulti, se non che il costo sia correlato a specifici ricavi conseguiti da quest’ultima, quanto meno che l’addebito di tale costo si sia tradotta in una effettiva utilità per la controllata”.

Sostanzialmente, l’onere della prova di dare la dimostrazione che il costo esiste ed è inerente nel passaggio da una società controllante estera a una controllata italiana non può che essere a carico del Fisco e non del contribuente.