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La delocalizzazione può essere anche una fonte di rischi

La delocalizzazione può essere anche una fonte di rischi

La delocalizzazione può essere anche una fonte di rischi

La delocalizzazione dell’attività produttiva all’estero da parte dell’imprenditoria italiana è dovuta principalmente all’opportunità di risparmiare sul costo del lavoro e al regime fiscale maggiormente favorevole rispetto a quello italiano.

Per certe aziende operanti in settori economici particolari vi sono anche delle maggiori opportunità di instaurare sinergie con partner esteri.

La delocalizzazione rileva pure degli aspetti negativi tuttavia come la tassazione dei plusvalori latenti e delle riserve in sospensione d’imposta in caso di trasferimento dell’impresa all’estero; le problematiche di transfer price tra la struttura estera e quella italiana, le incomprensioni per la residenza della società costituita all’estero ed i rischi connessi alla stabile organizzazione e l’eventuale tassazione per trasparenza dei soci italiani (CFC white list).

Delocalizzazione

Se la delocalizzazione avvenisse trasferendo all’estero l’impresa che in passato ha operato in Italia è assai onerosa. In base all’art. 166, co. 1, D.P.R. 22.12.1986, n. 917 il trasferimento all’estero della residenza dei soggetti che esercitano imprese commerciali in qualsiasi forma comporta il realizzo, al valore normale, dei componenti dell’azienda o del complesso aziendale. L’art. 9 DPR 917/1986 definisce il valore normale come “il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati”.

Questo è in sostanza un metodo per evitare che le imprese fuggano all’estero senza scontare le imposte sugli incrementi di valore maturati in passato.

Sentenze di Corte

Una recente sentenza della Corte di Giustizia Ue ha contrastato tale modus operandi (vedi sentenza del 29.11.2011, C-371/10) ed ha, tuttavia, stabilito che l’art. 49 Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea):

  • È compatibile con una normativa che in caso di trasferimento di residenza all’estero di un’impresa non  consente la deduzione dai plusvalori imponibili delle minusvalenze realizzate in seguito al trasferimento di sede;
  • Contrasta con una normativa “che impone a una società che trasferisce in un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva, la riscossione immediata, al momento stesso di tale trasferimento, dell’imposta sulle plusvalenze latenti relative agli elementi patrimoniali di tale società”.
In sostanza, in base alla sentenza della Corte di Giustizia Europea la società che trasferisce la propria residenza all’estero dovrebbe determinare le plusvalenze imponibili in tale circostanza, ma la tassazione delle stesse è rinviata al momento in cui i beni sono effettivamente alienati.

La sentenza ha un effetto dirompente sulla disciplina interna dei vari Paesi poiché determina l’inoperatività dell’art. 166, D.P.R. 917/1986. Infatti l’art. 166 stabilisce che il trasferimento della residenza all’estero di un’impresa non è un’operazione fiscalmente neutra poiché determina il realizzo dei plusvalori latenti e delle riserve in sospensione d’imposta.

Legislatore italiano

Si evidenzia come il legislatore italiano per accogliere il contenuto della sentenza della Corte di Giustizia Europea abbia inserito 2 nuovi commi nell’art. 166 del Tuir che riportiamo di seguito. “2-quater.

I soggetti che trasferiscono la residenza, ai fini delle imposte sui redditi, in Stati appartenenti all’Unione europea ovvero in Stati aderenti all’Accordo sullo Spazio economico europeo inclusi nella lista di cui al decreto emanato ai sensi dell’articolo 168-bis, con la quale l’Italia abbia stipulato un accordo sulla reciproca assistenza in materia di riscossione dei crediti tributari comparabile a quell’assicurata dalla direttiva 2010/24/UE del Consiglio, del 16 marzo 2010. In alternativa a quanto stabilito al comma 1, possono richiedere la sospensione degli effetti del realizzo ivi previsto in conformità ai principi sanciti dalla sentenza 29 novembre 2011.

Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di natura non regolamentare sono adottate le disposizioni di attuazione del comma 2-quater, al fine di individuare, tra l’altro, le fattispecie che determinano la decadenza della sospensione, i criteri di determinazione dell’imposta dovuta e le modalità di versamento”.

Tassazione delle Riserve in Sospensione

Un altro problema sono le riserve in sospensione d’imposta. In base all’art. 166, co. 2, D.P.R. 917/1986 il trasferimento di residenza all’estero comporta altresì l’assoggettamento a tassazione dei fondi in sospensione d’imposta iscritti in bilancio.

La tassazione è esclusa se gli stessi sono ricostituiti nel patrimonio contabile della stabile organizzazione. In ogni caso, il trasferimento non comporta la liquidazione della società italiana.

Anche perché il trasferimento senza estinzione deve ritenersi ammesso ai sensi dell’art. 2437 c.c., il quale, considerando il trasferimento all’estero della sede sociale causa di recesso per i soci, sembra implicitamente presupporre che esso non abbia natura risolutoria. (Vedi R.M. 17.1.2006 n. 9).

Il transfer price

Una successiva problematica che riguarda le imprese che delocalizzano all’estero attiene alla giusta impostazione dei prezzi di trasferimento tra la struttura italiana e quella estera.

In base all’art. 110, co. 7, D.P.R. 917/1986 i componenti reddituali derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato sono valutati in base al valore normale dei beni o dei servizi prestati o ricevuti.

Ciò significa che l’imprenditore non è libero di scegliere il prezzo riguardante la cessione e all’acquisto di beni e servizi. La norma trova applicazione solamente se l’entità italiana controlla o è controllata, direttamente o indirettamente da quella estera o se entrambe sono controllate da un medesimo soggetto terzo.

Per esempio un imprenditore italiano che delocalizza la propria attività all’estero tende ad adottare i seguenti comportamenti:

  • Vende la merce italiana a prezzi inferiori a quelli di mercato in modo da trasferire la materia imponibile nello stato estero dove la pressione fiscale è minore;
  • Eroga finanziamenti infruttiferi alla struttura estera per sostenere l’attività di start-up;
  • Trasferisce tecnologia e know-how senza il riconoscimento di un corrispettivo.

L’erogazione di un finanziamento e il trasferimento di tecnologia sono prestazioni di servizi che devono essere ricompensate con un corrispettivo che rispetti il valore normale, pena la ripresa a tassazione dei ricavi non dichiarati. È necessario, infatti, descrivere il metodo utilizzato per determinare i prezzi o la banda di prezzi di trasferimento.

Tipologia di prezzi tradizionali lecitamente utilizzabili

Il prezzo di libera concorrenza è quello che sarebbe stato pattuito per transazioni similari da imprese indipendenti.

Il metodo del prezzo di rivendita. Esso è il criterio adatto al caso in cui l’acquirente provveda alla sola commercializzazione dei beni acquistati e prende come punto di partenza il prezzo applicato nel mercato da questo soggetto.

Infine vi è il criterio del costo maggiorato. In questo caso il prezzo di trasferimento è determinato sulla base del costo di produzione aumentato di un margine di utile lordo desumibile da transazioni comparabili effettuate da terze parti indipendenti. Il metodo si rifà alle imprese che svolgano esclusivamente attività di produzione.

Tutti i metodi “tradizionali” presuppongono sempre l’esistenza di prezzi tra loro confrontabili. I criteri “alternativi” si applicano invece laddove non sia possibile eseguire tale comparabilità, e puntano alla ricostruzione dei prezzi di trasferimento ritenuti idonei utilizzando criteri funzionali.

Cenni sulle Convenzioni contro le doppie imposizioni

Indicazioni in materia di transfer price sono contenute anche nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia che s’ispirano al Modello OCSE.

L’art.9 “Imprese associate” del Modello OCSE stabilisce che quando “Un’impresa di uno Stato contraente partecipa, direttamente o indirettamente, alla direzione, al controllo o al capitale di un’impresa dell’altro Stato contraente, o le medesime persone partecipano, direttamente o indirettamente, alla direzione, al controllo o al capitale di un’impresa di uno Stato contraente e di un’impresa dell’altro Stato contraente e, nell’uno e nell’altro caso, le due imprese, nelle loro relazioni commerciali o finanziarie, sono vincolate da condizioni accettate o imposte, diverse da quelle che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti, gli utili che in mancanza di tali condizioni sarebbero stati realizzati da una delle imprese, ma che a causa di dette condizioni non lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di questa impresa e tassati in conseguenza”.

La funzione della norma è di proteggere le imprese da rettifiche operate dagli Stati in modo non conforme al principio di libera concorrenza.

Residenza delle società

L’art. 73, co.3 D.P.R. 917/1986 stabilisce che una società o un ente sono considerati residenti nel nostro Paese quando per la maggior parte del periodo d’imposta hanno in Italia:

  • La sede legale
  • La sede dell’amministrazione
  • L’oggetto principale della propria attività

La società è considerata residente quando anche una sola delle condizioni appena illustrate può dirsi verificata. L’art. 5, co. 2, lett. d) D.P.R. 917/1986, inoltre, prevede una norma del tutto analoga anche per le società di persone e le associazioni professionali.

Ciò significa che la residenza non è legata esclusivamente al dato formale della sede legale ma anche a quello sostanziale della sede dell’amministrazione. Pertanto, se la società italiana ha trasferito la propria sede all’estero, ma gli amministratori sono tutti italiani, la stessa continuerà a essere considerata residente (e tassabile) in Italia, giacché l’Amministrazione finanziaria avrà buon gioco a dimostrare che le decisioni sono prese in Italia.

A tal fine potrei suggerire l’adozione di comportamenti cautelativi. Il problema della residenza è affrontata anche dall’art. 4 del Modello di Convenzione dell’OCSE del 15.7.2005, il quale stabilisce che, se entrambi gli stati considerano residente una società in base alla propria disposizione interna, deve prevalere il criterio della sede dell’amministrazione.

La stabile organizzazione occulta

Un ulteriore rischio connesso alla delocalizzazione all’estero risiede nell’eventualità che l’Amministrazione finanziaria italiana contesti la sussistenza della stabile organizzazione nello stato estero e assoggetti quindi a tassazione in Italia anche i redditi prodotti da questa. I casi sono quelli dell’agente monomandatario e della società interamente controllata.

Il modello di Convenzione dell’Ocse stabilisce all’art. 5, paragrafo 5, che l’agente dipendente dalla casa madre estera è considerato una stabile organizzazione. Ciò significa che, nonostante l’agente sia un soggetto distinto, i redditi da questi prodotti devono essere inclusi nel bilancio dell’impresa preponente italiana ed essere assoggettati a tassazione in Italia, (eventualmente vi potrà essere un credito a fronte delle imposte estere). Ma in base all’art. 5, paragrafo 7 del Modello Ocse, il fatto che una società (italiana) controlli una società estera, non implica che questa sia necessariamente una stabile organizzazione della prima. Ciò significa, tuttavia, che una società estera, pur essendo dotata di una propria soggettività giuridica, può astrattamente essere considerata stabile organizzazione di una entità, estera.  Ciò potrebbe accadere più facilmente nel  caso  di una partecipazione totalitaria o quasi. L’Amministrazione fiscale italiana, però, potrebbe assumere la sussistenza della stabile in tutti i casi in cui la società estera è totalmente asservita alle strategie della controllante che, superando i limiti connessi a un’ordinaria attività di direzione e coordinamento normalmente spettante alla capogruppo, considera la struttura estera come un proprio stabilimento o ufficio privo di autonomia decisionale.

Come sono suddivisi i profitti di una stabile organizzazione?

Può accadere che l’imprenditore decida di operare all’estero mediante l’apertura di una stabile organizzazione. In questo modo i redditi della stabile sono assoggettati a tassazione anche in Italia con l’Ires del 33%, rinunciando quindi ai vantaggi di una fiscalità ridotta del Paese estero.

Tale scelta, tuttavia, presenta i seguenti vantaggi:

  1. Si evita all’origine il rischio che l’Amministrazione Finanziaria considera residente in Italia la struttura estera.
  2. Si evita ovviamente la contestazione della sussistenza della stabile organizzazione in capo alla società estera.
  3. Le perdite della stabile organizzazione sono direttamente compensabili con gli utili realizzati in Italia.
Importante è notare che le perdite d’inizio attività non potrebbe di norma essere recuperate se la società italiana operasse all’estero attraverso una società di diritto locale, poiché nel sistema fiscale italiano non sono deducibili le svalutazioni delle partecipazioni non realizzate.

L’art. 7, paragrafo 2, del Modello di Convenzione Ocse del 15.7.2005 prevede, infatti, che alla stabile devono essere attribuiti gli utili che sarebbero stati prodotti in circostanze analoghe se si fosse trattato di un soggetto giuridicamente distinto. Successive indicazioni utili possono essere rinvenute anche nel Commentario al Modello di Convenzione. L’Ocse ha, inoltre, elaborato una bozza di discussione concernente le regole di attribuzione dei profitti alla stabile organizzazione datata 2.8.2004. I lavori dell’Ocse, una volta definitivi, sono generalmente accolti anche dalle versioni successive del Commentario.

 

CFC White List

Con l’introduzione del nuovo comma 8 bis nell’articolo 167 del Tuir, si prevede che la disciplina CFC “trova applicazione anche nell’ipotesi in cui i soggetti controllati ai sensi dello stesso comma sono localizzati in stati o territori diversi da quelli ivi richiamati, qualora ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:

  1. Sono assoggettati a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella cui sarebbero stati soggetti ove residenti in Italia.
  2. Hanno conseguito proventi derivanti per più del 50% dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica e dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari”.

La norma, quindi, attrae al regime di trasparenza fiscale delle società CFC anche i soggetti localizzati in Paesi o territori non inclusi nella black list, laddove sussistano determinati presupposti. Quindi, la norma in materia di CFC, si applica indipendentemente dal territorio d’insediamento e, quindi, anche nei confronti di soggetti localizzati in Paesi dell’UE a fiscalità di vantaggio. Sono, dunque, attratte nella nuova disciplina le società controllate che sono localizzate in Paesi UE a bassa fiscalità: si pensi alla Bulgaria (aliquota del 10% o alla Repubblica d’Irlanda con un’aliquota del 12,50%) oltre a Paesi extra-UE, come la Serbia.

Il nuovo comma 8-bis si applica se, in capo al soggetto estero, risultano verificate congiuntamente due condizioni:

  1. È assoggettato a imposizione ridotta.
  2. Ha conseguito proventi che derivano prevalentemente dalla mera detenzione e intestazione di assets materiali e immateriali specificamente individuati dalla norma ovvero da prestazioni di servizi infragruppo.

 

La circolare n.51/2010 ha indicato in modo preciso cosa se intenda per “tassazione effettiva inferiore alla metà”. Si precisa che il contribuente deve far riferimento al carico effettivo d’imposizione (effective tax rate) e non all’aliquota nominale d’imposizione societaria gravante sulla società estera; il carico effettivo d’imposizione è determinato rapportando l’imposta effettivamente pagata nel paese estero all’utile ante imposte. In seguito si deve confrontare la “tassazione effettiva estera” con quella “virtuale” interna considerando esclusivamente le imposte sul reddito, da individuare facendo riferimento, qualora esistente, alla Convenzione contro le doppie imposizioni ed escludendo in ogni caso l’IRAP. L’esclusione dell’IRAP è un passo importante dell’Agenzia delle Entrate.

Da precisare inoltre che:

  1. Vanno prese in considerazione solo le imposte correnti e non anche le eventuali imposte anticipate e differite.
  2. L’irrilevanza dei crediti d’imposta per le imposte pagate all’estero e le eventuali agevolazioni di carattere temporaneo o non strutturale, riconosciute alla generalità dei contribuenti.
  3. Si deve tener conto delle agevolazioni spettanti al singolo contribuente e quelle ottenute in base ad un accordo di ruling.

Infine, il tax rate estero, va determinato facendo riferimento ai dati risultanti dal bilancio di esercizio della società estera redatto secondo le norme locali e utilizzando, nel calcolo, le imposte sul reddito effettivamente dovute nello Stato o territorio estero di localizzazione. La circolare stabilisce che non è possibile utilizzare in compensazione le perdite fiscali maturate prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina quindi le perdite ante 2010.

 

La successiva Circolare Ministeriale del 26.5.2011, n. 23/E è nuovamente intervenuta sul tema, chiarendo i seguenti punti:

  • A livello di Transfer price ha chiarito che l’art. 110 D.P.R. 917/1986 stabilisce che i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei servizi prestati e ricevuti.
  • Ha chiarito che ai fini della valutazione del tax rate corrispondente italiano non si deve considerare la disciplina delle società di comodo. Si esclude la rilevanza delle differenze temporanee pregresse, ossia variazioni in diminuzione che derivano da variazioni temporanee originatesi in esercizi anteriori a quello della prima applicazione della disciplina cfc.
  • Si affronta il tema della rilevanza fiscale dei fondi risultanti dal bilancio. Ad esempio i valori risultanti dal bilancio concernente l’esercizio o periodo di gestione anteriore a quello da cui si applicano le disposizioni del presente regolamento sono riconosciuti ai fini delle imposte sui redditi a condizione che siano conformi a quelli derivanti dall’applicazione dei criteri contabili adottati nei precedenti esercizi o ne sia attestata la congruità da uno o più revisori. È inoltre previsto il riconoscimento degli ammortamenti e dei fondi per rischi e oneri risultanti.
  • La circolare vorrebbe che i valori di bilancio debbano essere monitorati per tutte le società controllate estere in occasione della prima applicazione della disciplina (impossibile).
  • Le perdite estere anteriori al 2010 non rilevano a prescindere dalla loro origine e natura, poiché una diversa soluzione potrebbe essere pregiudizievole nei confronti del contribuente.
  • La tassazione per trasparenza non può essere basata su valutazioni di convenienza del contribuente ma su circostanze di fatto attinenti all’artificiosità o meno della struttura estera. In caso di distribuzione di dividendi, per gli utili in precedenza tassati per trasparenza non interviene nessuna ulteriore tassazione in capo al socio italiano.
  • Se la partecipazione è detenuta direttamente da una società residente e indirettamente da un’ulteriore società italiana l’interpello dovrebbe essere presentato dalla società residente di ultimo livello, la quale provvederà poi a compilare il quadro FC imputando il reddito alla società di primo che lo dichiarerà nel quadro RM.
  • La partnership, ai fini della valutazione del tax rate domestico, va trattata al pari di una società di persone esercente attività d’impresa.
  • Il tax rate estero va determinato facendo riferimento all’imposta assolta dal partner sui redditi ad esso imputati dalla partnership, nonché alle eventuali imposte sul reddito assolte dalla partnership nel proprio Stato di localizzazione.

Le attività immateriali esternalizzate

Le transazioni aventi per oggetti beni immateriali si prestano a essere utilizzate come strumento di evasione fiscale. Alla presenza di una licenziante estera, gli Uffici accerteranno quindi le modalità di acquisizione dell’invenzione industriale, non ammettendo la deduzione di corrispettivi di sfruttamento erogati a società che non siano titolari di diritto immateriale. Proprio per queste difficoltà e al fine di perseguire l’esigenza della certezza per il contribuente e di un rapido accertamento per l’Amministrazione, si è ritenuto opportuno predeterminare “valori normali” da ritenere congrui, in linea di massima e fermo restando quanto detto sopra. In particolare, è stato stabilito che i canoni fino al 2% del fatturato potranno essere accettati dall’Amministrazione quando la transazione risulta da un contratto redatto per iscritto ed anteriore al pagamento del canone e sia sufficientemente documentata l’utilizzazione e, quindi, l’inerenza del costo sostenuto. Se i canoni oscillano tra il 2 e il 5%, oltre al rispetto delle condizioni in precedenza illustrate, devono esserci dati tecnici che giustifichino il tasso dichiarato. Inoltre il tasso dichiarato deve essere giustificato dai dati giuridici, emergenti dal contratto. Infine, deve essere comprovata l’effettiva utilità conseguita dal licenziatario italiano. L’amministrazione precisa inoltre che canoni superiori al 5% del fatturato potranno essere riconosciuti solo in casi eccezionali giustificati dall’alto livello tecnologico del settore economico in questione o da altre circostanze.

L’esternalizzazione del marchio può essere in taluni casi abbastanza problematica poiché la cessione all’impresa estera genera materia imponibile soprattutto se il marchio è iscritto a un valore di carico piuttosto modesto. Gli operatori dovranno tuttavia resistere alla tentazione di alienare il bene immateriale a valori particolarmente bassi in quanto anche la cessione iniziale è soggetta al vaglio della disciplina sul transfer price e un corrispettivo troppo basso potrebbe risultare incongruente con i successivi canoni corrisposti. Potrà essere interessante, ad esempio, cedere il marchio dopo averlo rivalutato sfruttando le apposite leggi di rivalutazione.